C’è un ordine del discorso generazionale che a troppi adulti sfugge, ed è quello dell’insosteniblità di un sistema fondato sulla performance e sull’umano come “imprenditore di se stesso”, su una valutazione fondata sul mito performativo del “merito”, sull’iperindividualismo competitivo
Generalmente ci si indigna in nome della solita solfa che “la vita è un esame”, che questi ragazzi sono incapaci del sacrificio necessario alla vita, che un domani nel lavoro come faranno, e via salmodiando. L’intero sistema di comprensione della realtà degli adulti va in tilt, e si irrigidisce nel giudizio – un giudizio che si scaraventa sui “giovani” come incapaci, presuntuosi, viziati, narcisisti. Un mondo di adulti che giudicano a partire dal fatto che non si sono mai posti il problema di dislocare lo sguardo entrando in relazione col vissuto e con le categorie degli adolescenti e delle adolescenti.
Eppure, basterebbe leggere le motivazioni che sono state date a quei gesti da chi li ha fatti per sospendere il giudizio e astenersi dal lanciare i propri indignati strali. Quando una ragazza scrive che il senso di quella sottrazione è il rifiuto de «i meccanismi di valutazione scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente» sta attribuendo al suo gesto un significato politico molto netto, e dice quello che una parte di ragazzi e ragazze delle scuole dicono da diversi anni in maniera molto consapevole, a cominciare dalle molte occupazioni di scuole che esattamente questo avevano al centro. C’è un ordine del discorso generazionale che a troppi adulti sfugge, ed è quello dell’insosteniblità di un sistema fondato sulla performance e sull’umano come “imprenditore di se stesso”, su una valutazione fondata sul mito performativo del “merito”, sull’iperindividualismo competitivo.
È questo sistema che viene contestato dai ragazzi e dalle ragazze che si sottraggono al giudizio finale dell’orale: ma al significato da loro attribuito a quel gesto gli adulti non danno alcuna rilevanza, perché un minore per troppi non è evidentemente credibile quando esprime un significato autonomo, e così facendo gli si nega dignità e soggettività. Ma nonostante l’incomprensione degli adulti, quel gesto è insieme esistenziale e politico. Perché è assolutamente politico chiedere di non essere umiliati, e chiedere empatia. In una lettera pubblica, i ragazzi e le ragazze del liceo Berchet di Milano avevano scritto: «Ciò su cui cerchiamo di porre l’attenzione è solo il necessario riconoscimento di una dignità della fragilità». Questa rivendicazione era strettamente connessa alla richiesta di una «relazione empatica tra studenti e professori», intendendo la scuola non come «uno sterile trasferimento di nozioni, bensì un luogo e un tempo di cura dei rapporti umani in chiave formativa». Per questo, scrivevano, «non accetteremo più atteggiamenti oppressivi e dispotici. Una scuola autoritaria prepara ad una società autoritaria, e noi non siamo disposti a tollerare né l’una, né, tantomeno, l’altra».
«Avevo anche provato a parlarne con i professori», dice una delle ragazze che ha rifiutato l’orale, «ma nessuno ha mai dimostrato interesse. I docenti non guardano come sta lo studente davvero». Sono ragazzi e ragazze che dicono basta. Il sé di un adolescente sottoposto da sempre alle ingiunzioni della performance, del successo e del merito è fragile: e questa fragilità, oggi, viene rivendicata da molti esplicitamente, per farla diventare un punto di forza – e lo diventa quando viene messa in comune. È così che oggi questi ragazzi e queste ragazze possono immaginare di difendere i propri diritti.
A tutto questo l’ineffabile Valditara, supportato anche dai prof che teoricamente sarebbero “di sinistra” che però leggono questi gesti nel suo stesso senso, risponde dicendo che sarà bocciato chi farà scena muta «spontaneamente»: al di là della surreale valutazione di quella spontaneità, che ci riporta a uno scenario proprio di un romanzo di Philip Dick, ci si presenta ancora una volta la crisi di un sistema che, incapace di comprendere gli “alieni” che ha davanti, reagisce con l’unico strumento che conosce: il rafforzamento dell’autorità.
Come mi è già capitato di scrivere, a proposito di un bel libro di un’adolescente, Amelia C. (Vigliacchi. Il mio j’accuse al mondo degli adulti), perché gli adolescenti smettano di essere alieni occorre fare quella semplice e difficilissima cosa che è tacere. E ascoltare.
Smettere di presumere che siano barbari incapaci di parlare e di pensare, ma persone che parlano e pensano in modo diverso. Se li ascoltiamo, magari arriviamo a capire che sono loro a considerare alieni gli adulti.
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